Impianti di metano e venting: in Sicilia e Basilicata 15 casi di rilascio diretto
C’è una zona precisa in Italia in cui si estrae più metano: si parla della Basilicata, regione con una produzione totale annua di 1.079.274.088 metri cubi. A seguire, stando ai dati del MISE riferiti al 2021, ci sono Sicilia, Emilia Romagna e Molise, con delle zone di estrazione offshore a largo dell’Emilia Romagna, delle Marche e dell’Abruzzo. A partire da questa classifica non stupisce che un’indagine di Legambiente sulle perdite di metano e sul venting abbia avuto luogo proprio tra Sicilia e Basilicata. Nelle due regioni si contano infatti 25 impianti di gas metano. 13 di questi, e quindi più della metà, mostrano emissioni di metano significative. In 15 casi si parla di venting, ovvero di rilasci diretti di metano nell’atmosfera. Vanno poi sommate altre 68 perdite di gas, da associare a possibili guasti, a una manutenzione non sufficiente degli impianti e via dicendo. Come sottolineato dall’associazione ambientalista, dei 13 impianti sotto accusa, 11 sono legati al trasporto di gas fossile. Di questi, 10 sono gestiti da Snam, uno da Italgas e un altro da Greenstream BV, ovvero da Eni e da Noc, la compagnia nazionale libica.
Il pericolo delle perdite di metano
Di certo le perdite di metano non rappresentano un rischio da poco. Certo, il suo effetto sull’atmosfera e sul clima dura molto meno rispetto a quello dell’anidride carbonica: si parla infatti di effetti che restano in campo per circa 20 anni dal momento del rilascio. Un periodo che, peraltro, è comunque oggettivamente molto lungo. Ma il vero problema sta nel fatto che il metano è fino a 86 volte più climalterante rispetto all’anidride cabonica. Ed è per questo che Legambiente ha voluto impegnarsi nella campagna “C’è Puzza di Gas“, dando il via a dei monitoraggi attraverso l’uso di una termocamera a infrarossi, capace di individuare le perdite. Si è scoperto così che spesso ci sono delle perdite impreviste a livello di valvole, di giunture, di bulloni, di elementi connettori e di contatori.
Stando a uno studio pubblicato sulla rivista Science, il settore delle estrazioni negli USA perde annualmente 13 milioni di tonnellate di metano, una mole superiore del 60% rispetto a quanto stimato dall’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente. I danni conseguenti, per farsene un’idea, sono pari a quelli provocati dalle emissioni di anidride carbonica di tutti gli impianti di carbone degli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Italia, il WWF ha stimato una perdita annuale di gas fossile nell’atmosfera compresa tra i 3,2 e i 3,9 miliardi di metri cubi. Il problema peraltro è che non si parla solamente di perdite accidentali: sono da tenere in considerazione anche quelle legate alla pratica del venting.
Venting metano: di cosa si tratta?
Abbiamo anticipato sopra che le perdite sono spesso causate da dei rilasci diretti e quindi volontari di gas metano, pratica che viene indicata con il termine “venting”. Si tratta di un rilascio controllato, parallelo al flaring (ovvero all’atto di bruciare il gas in eccesso estratto durante l’estrazione del petrolio). Ecco che allora fare venting significa rilasciare nell’aria del gas incombusto, con tutti i danni che questo causa all’ambiente. Queste pratiche sono fortemente limitate, ma i dati di Legambiente dimostrano che si tratta in realtà di attività piuttosto comuni, anche negli impianti italiani.
È noto che la Commissione Europea ha approntato una proposta legislativa con delle norme per il settore del gas, nelle quali dovrebbe essere specificato il divieto (eccezion fatta per rari casi) di mettere in campo delle attività come il venting e il flaring.
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