Urban farming e rifugiati
Agricoltura

Urban farming e rifugiati: una via per l’integrazione

Dall’altra parte del fiume Cuyahoga, nella periferia di Cleveland, uomini e donne vestiti di colori sgargianti raccolgono i prodotti della terra provenienti dalle locali piantagioni. Si parla in hindi, in nepalese, in somalo e naturalmente in inglese. In questo modo, attraverso il lavoro agricolo, questi profughi hanno una possibilità di vivere dignitosamente e integrarsi nel tessuto sociale americano. Parliamo di urban farming e rifugiati, di come cioè l’agricoltura può offrire una speranza a chi si è allontanato dal proprio Paese, nel quale difficilmente potrà tornare.

Come funziona il REAP, il Refugee Empowerment Agricultural Program

Nel 2010, l’organizzazione no-profit The Refugee Response ha creato il programma REAP, per sostenere i rifugiati assegnati alla zona di Cleveland attraverso l’agricoltura. Durante il percorso che dura un anno, uomini e donne provenienti da Afghanistan, Nepal, Bhutan, Burundi, Myanmar e Somalia imparano l’inglese e, tramite il lavoro agricolo svolto nell’Ohio City Farm (la più grande fattoria urbana d’America), acquisiscono competenze professionali spendibili in seguito. Quest’anno, attraverso il REAP, si attende un raccolto di quasi una tonnellata di prodotti provenienti dalle piantagioni adiacenti la fattoria.

Urban farming e rifugiati: un percorso d’integrazione in un nuovo Paese

Oltre al REAP di Cleveland, molte altre realtà simili si stanno sviluppando in varie città statunitensi. Va detto che dal momento in cui Donald Trump si è insediato come presidente, gli Stati Uniti sono diventati un Paese meno amichevole verso gli extracomunitari. Ciò nonostante, molte comunità e organizzazioni stanno sostenendo i rifugiati, scorgendo nel settore agricolo il migliore veicolo per favorire l’integrazione. Il lavoro in una fattoria come primo passo per inserirsi in una società è agevolato dal fatto che molti dei rifugiati hanno già un background agricolo. Secondo un sondaggio realizzato da Margaret Fitzpatrick, direttrice del REAP, circa l’80% delle persone accolte nella struttura di Cleveland, hanno già avuto esperienza nell’agricoltura.

Lavorare e studiare per costruirsi un nuovo futuro

Come parte del programma, i partecipanti trascorrono 28 ore alla settimana in azienda e 12 in aula a studiare. Il lavoro agricolo comprende diverse mansioni in modo da offrire ai rifugiati un’esperienza più ampia e completa. Ovviamente ciò non significa che queste persone debbano restare per sempre legate al mondo agricolo: molte, infatti, una volta concluso il programma, trovano lavori differenti. Il tempo speso in classe permette loro di imparare l’inglese e acquisire conoscenze utili per tutelare i propri diritti di lavoratori come, ad esempio, gestire le richieste di ferie o malattia. Inoltre, le ore spese nelle piantagioni o in aula vengono indifferentemente pagate 9 dollari, consentendo loro di essere economicamente indipendenti. In tal senso urban farming e rifugiati diventa un binomio davvero favorevole all’integrazione.

Nella periferia della città ma nel cuore della comunità

L’enorme fattoria urbana di Cleveland si trova nella periferia ovest della città, nei pressi di abitazioni popolari e di fronte al più antico mercato contadino della zona. Si tratta di una posizione ideale per favorire l’integrazione dei lavoratori nel variegato e multietnico tessuto cittadino locale che rispecchia, su più larga scala, quello dell’America intera. Inoltre, avendo la possibilità di praticare l’inglese con i visitatori della fattoria, i clienti, i volontari ed il personale del REAP, i rifugiati hanno molte occasioni per imparare, confrontandosi con persone ed idee diverse.

Eat OffBeat: non solo lavoro nei campi ma anche in cucina

Se il connubio fra urban farming e rifugiati rappresenta un modello di integrazione funzionante, va anche detto che non si tratta dell’unico possibile. In una cucina del Queens, infatti, lavorano i rifugiati di Eat OffBeat, azienda di food delivery operante a New York. In questa cucina, ragazzi e ragazze provenienti da diverse parti del mondo, preparano piatti tipici del proprio Paese. Di seguito, i prelibati cibi vengono consegnati direttamente a domicilio. Nella cucina di Eat OffBeat lavorano soprattutto donne, scelta non casuale dato che molto spesso sono le più vulnerabili.

Bee my job: anche l’Italia si dà da fare

Lavorare in mezzo ai campi o davanti ai fornelli non è l’unico modo per crescere professionalmente ed integrarsi in un nuovo Paese. Bee my job è un progetto di apicoltura urbana ideato dall’associazione di promozione sociale Cambalache in collaborazione col comune di Alessandria. Lo scopo di Bee my job è coinvolgere rifugiati e richiedenti asilo nel processo produttivo del miele, offrendo loro la possibilità di imparare un mestiere e integrarsi attraverso l’interazione con i cittadini italiani. Sono coinvolti in questo progetto i migranti ospiti nei centri d’accoglienza sparsi nel comune e i soggetti più vulnerabili aiutati dai servizi sociali. Dal 2015 ad oggi sono stati formati da Bee my job circa 70 lavoratori, alcuni dei quali hanno trovato impiego o avviato tirocini formativi in aziende analoghe su tutto il territorio nazionale.