Progressi tecnologici sostenibili: le innovazioni del 2016
L’energia pulita per decollare ha bisogno di investimenti, di normative a supporto ma soprattutto di nuove tecnologie. Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha fatto passi da giganti e sono tante le innovazioni tecnologiche su cui si sta puntando. Ecco una panoramica dei più promettenti progressi nella tecnologia sostenibile sviluppati nel 2016.
Progressi tecnologici sostenibili: la fotosintesi artificiale
Uno dei pezzi mancanti nel portafoglio delle fonti di energia rinnovabile è quello dei combustili puliti che possano sostituire i tradizionali carburanti per il settore dei trasporti. Fra le opportunità più promettenti vi è la cosiddetta ‘fotosintesi artificiale’, un metodo che imita il processo naturale della fotosintesi per convertire luce solare, anidride carbonica e acqua in combustibile.
Su questo fronte si investe da molti anni. Ma questa estate gli scienziati Daniel Nocera e Pamela Silvers dell’Università di Harvard hanno dato una spinta decisiva alla ricerca in questo campo con lo sviluppo di una ‘foglia bionica’ in grado di catturare e convertire il 10% dell’energia solare. Un risultato che supera di gran lunga quello della natura.
I ricercatori hanno utilizzato dei catalizzatori a base di una lega di cobalto-fosforo per dividere l’acqua in idrogeno e ossigeno, e vi hanno poi aggiunto dei batteri appositamente progettati per inghiottire l’anidride carbonica e l’idrogeno convertendoli in combustibile liquido.
Un metodo simile è stato utilizzato anche dal Lawrence Berkeley National Laboratory e dal Joint Center for Artificial Photosynthesis ma le sfide da risolvere sono ancora molte, quindi ci vorranno probabilmente ancora degli anni prima di poter commercializzare la tecnologia.
Termofotovoltaico con nanotubi di carbonio
Risale alla scorsa primavera un’importante scoperta del MIT (Massachusetts Institute of Technology), che ha migliorato le prestazioni delle celle termofotovoltaiche, in grado cioè di sfruttare oltre alla luce anche il calore. A differenza delle celle solari standard che assorbono solo una frazione dello spettro colorato della luce solare, i moduli termofotovoltaici, oltre a convertire direttamente la luce del sole, consentono di portare un materiale ad alta temperatura e convertire anche la radiazione infrarossa che questo emette. Finora però le performance di efficienza delle celle non erano state particolarmente incoraggianti. Finché il team del MIT non ha deciso di sperimentare l’aggiunta di un ulteriore componente: un materiale assorbitore-emettitore composto da un doppio strato di nanotubi di carbonio e cristalli fotonici che insieme funzionano come un imbuto che raccoglie l’energia e la convoglia in una stretta banda di luce. I nanotubi riescono a catturare l’intero spettro di colori, anche i raggi ultravioletti invisibili e le lunghezze d’onda infrarosse. Il risultato, secondo i ricercatori, potrebbe essere quello di un’efficienza delle celle fino all’80%. Ma è un traguardo ancora lontano nella pratica.
Celle solari in perovskite
Le celle solari in perovskite sono a buon mercato, facile da produrre e molto efficienti. Hanno però un limite, quella della durevolezza. I componenti che assorbono l’energia solare tendono a degradarsi velocemente, soprattutto in caso di alte temperature e umidità. Ma su questo fronte si è investito molto e qualche risultato c’è stato nel corso del 2016.
Fra tutti citiamo i risultati ottenuti da un team del Politecnico di Torino che, insieme all’École Polytechnique Fédérale de Lausanne (EPFL), al Politecnico di Milano e all’Istituto Italiano di Tecnologia, ha sviluppato un rivestimento innovativo che modera i problemi delle celle solari a perovskite e apre le porte alla loro produzione industriale, possibile secondo i ricercatori al 2020.
Si tratta di un rivestimento fluorurato di spessore micrometrico – impercettibile, quindi, su un dispositivo poco più grande di un francobollo, come appunto una cella a perovskite – che funge da efficace barriera contro l’umidità e garantisce in più caratteristiche autopulenti ai pannelli solari quando esposti agli agenti atmosferici e in grado quindi di contrastarne l’invecchiamento. Il film è stato realizzato tramite fotopolimerizzazione, una tecnica di polimerizzazione rapida, economica ed a basso impatto ambientale. Per contrastare l’invecchiamento dei materiali indotto dalla luce ultravioletta, il rivestimento polimerico è stato inoltre potenziato con molecole luminescenti in grado di convertire la luce ultravioletta presente nella radiazione solare in luce non dannosa per la cella solare. Le celle solari sono state assemblate, caratterizzate e testate in diverse condizioni di invecchiamento accelerato per oltre un anno in diversi laboratori. I test ne hanno registrato un’efficienza di circa il 19% e una buona resistenza in condizioni estreme, che ne sancisce la durevolezza.
Cattura e stoccaggio del carbonio
Per ridurre la concentrazione di CO2 in atmosfera, oltre a puntare sulla diminuzione della produzione, si investe anche su soluzioni in grado di intrappolare le emissioni nocive. Ma una volta catturate, cosa ne facciamo? Una risposta innovativa è arrivata quest’anno dall’Islanda che con il CarbFix project sta sperimentando presso la centrale geotermica di Hellisheidi un processo che prevede di iniettare la Co2 sottoterra, a centinaia di metri di profondità, dove il gas si trasforma in roccia e resta imprigionato nel sottosuolo. Finora sono state trasformate in roccia circa 10mila tonnellate di CO2 all’anno, anche perché si è scoperto che l’anidride carbonica si mineralizza molto velocemente, meno di due anni. È ancora presto per dire se CarbFix possa funzionare realmente perché il metodo ha due limiti: richiede grandi quantità d’acqua e ne vanno valutate le conseguenze geologiche. Si tratta ad ogni modo di un’idea interessante per risolvere il problema del riscaldamento globale che va testata sul lungo periodo.
Etanolo dalla CO2
Un’altra opzione molto promettente per l’anidride carbonica è quella di riutilizzarla per farne un combustibile naturale. La scoperta, avvenuta in modo casuale, è di un team dell’Oak Ridge National Laboratory del Dipartimento dell’Energia statunitense che hanno sviluppato un processo elettrochimico che converte l’anidride carbonica in etanolo.
Grazie all’uso di un catalizzatore composto da carbonio, rame e azoto, al quale è stata applicata una tensione per innescare la complessa reazione chimica che converte il processo di combustione. La soluzione di anidride carbonica disciolta in acqua è stata trasformata in etanolo. Dato che il catalizzatore è su scala nanometrica, il processo non genera effetti collaterali, per cui l’etanolo è quasi puro al 100%. E tutto ciò avviene a temperatura ambiente e la resa è stata stimata al 63%. I ricercatori hanno in programma di raffinare la loro tecnologia per migliorare il tasso di produzione complessivo e approfondire ulteriormente le proprietà e il comportamento del catalizzatore. Data l’economicità di prodotti e processi le prospettive sono interessanti e i ricercatori non escludono un’applicazione su scala industriale. Il metodo potrebbe ad esempio essere utilizzato per lo stoccaggio di energia elettrica prodotta in eccesso dagli impianti fotovoltaici ed eolici.
Ti è piaciuto l'articolo?
Condividilo