L’impatto del cambiamento climatico sulla biodiversità
Altro che due gradi: uno è già troppo
Come sappiamo tutti, con l’accordo stipulato alla Cop21 di Parigi l’anno scorso i Paesi firmatari si sono impegnati a mantenere l’aumento delle temperature sotto ai 2 gradi centigradi, sebbene l’obiettivo massimo ideale sia quello di 1,5°. Eppure, secondo voci autorevoli della comunità scientifica, anche questo rialzo sarebbe fin troppo: già adesso, infatti, il cambiamento climatico ha avuto delle conseguenze importanti sulla vita terrestre. Non si parla solo della riduzione delle risorse alimentari, dei fenomeni meteorologici intensi e delle nuove malattie, ma anche della biodiversità. A dimostrarlo è uno studio pubblicato su Science e realizzato da un gruppo di scienziati provenienti da tutto il mondo, per la maggior parte specialisti dell’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura.
Quasi tutti gli aspetti della biodiversità sono mutati
Già oggi, rispetto all’era preindustriale, le temperature globali sono aumentate di un grado centigrado, e gli effetti sulla biodiversità sono evidenti: incrociando i dati, infatti, lo studio ha dimostrato come siano già avvenuti dei cambiamenti importanti negli ecosistemi terrestri, marini e d’acqua dolce. Questo significa che la flora e la fauna hanno iniziato a trasformarsi per adattarsi alla differenza di un solo grado. Complessivamente, lo studio ha preso in considerazione circa cento aspetti della biodiversità, e in quasi tutti i casi sono stati registrati dei cambiamenti. Si parla di trasformazioni nella distribuzione sul pianeta, ma anche nella composizione dei singoli ecosistemi e persino di veri e propri mutamenti genetici. Se dunque hanno fatto scalpore le notizie dello sbiancamento dei coralli, o quelle relative ai gusci delle conchiglie marine sciolte dall’acidificazione dell’oceano, bisogna anche capire che tali mutazioni stanno coinvolgendo in diversa misura quasi la totalità degli esseri viventi. La maggior parte degli animali e dei vegetali, infatti, hanno già cambiato di generazione in generazione il rispettivo ritmo di attività, per meglio adattarsi allo stravolgimento delle stagioni.
Mutamenti morfologici
Nel dettaglio, lo studio ha preso in considerazione 94 aspetti diversi della biodiversità, scoprendo che nell’82% dei casi il cambiamento climatico ha portato dei mutamenti. Ci sono per esempio delle trasformazioni riguardanti la morfologia, con specie sia terrestri che acquatiche che tendono a rimpicciolire per aumentare – come sostengono gli studiosi – il rapporto superficie/volume, così da sopravvivere al meglio in condizioni climatiche più torride. Le piante dei climi temperati, inoltre, fioriscono sempre più presto in primavera e più tardi una autunno, così come sono cambiati i periodi della deposizione delle uova dei pesci marini e di acqua dolce. Allo stesso modo, l’innalzarsi di un grado della temperatura globale ha avuto ripercussioni anche sui periodi delle migrazioni stagionali degli animali.
Dai peschi agli allocchi
Ci sono dunque moltissimi cambiamenti in atto. Ma attenzione, non dobbiamo scambiarli per evoluzioni: non tutto quello che cambia, infatti, lo fa verso il meglio. È il caso di un pesce che vive nel Golfo di St. Lawrence, a sud del Labrador, nel Canada Orientale. Qui, gli esemplari di Leucoraja ocellata, un pesce molto comune in tutto l’Oceano Atlantico, sono molto più piccoli che altrove. Questi pesci non stanno però cambiando il proprio DNA, ma solamente il modo in cui esprimono il proprio patrimonio genetico. E a cosa sarebbe dovuto questo mutamento? Secondo gli scienziati, il motivo è proprio il surriscaldamento delle acque del golfo, caratterizzato da acque poco profonde e quindi maggiormente influenzate dall’aumento della temperatura. Ma i cambiamenti riscontrati negli ultimi anni sono moltissimi: si pensi alla popolazione di allocchi finlandesi, i quali negli ultimi 30 anni sviluppano in forma maggiore il piumaggio marrone rispetto a quello bianco, a causa della sempre più scarsa presenza di neve.
Lo studio della FAO
Quasi tutte le specie animali e vegetali, dunque, stanno mutando per adattarsi al meglio al cambiamento climatico. Oltre a cercare con ogni mezzo di limitare l’inquinamento e l’aumento delle temperature, dunque, l’uomo dovrebbe giocare d’anticipo, impegnandosi per studiare, preservare e utilizzare a proprio favore la diversità biologica sulla quale si fonda la produzione alimentare mondiale. Questo è in effetti il parere della FAO, la quale in molti studi ha esaminato a fondo le sfide del cambiamento climatico sui processi produttivi alimentari. Come è stato spiegato nello studio ‘Affrontare il cambiamento climatico: il ruolo delle risorse genetiche per l’alimentazione e l’agricoltura‘, nei prossimi decenni è probabile che «milioni di persone la cui sussistenza e sicurezza alimentare dipendono dall’agricoltura, dall’acquacoltura, dalla pesca, dalla silvicoltura e dall’allevamento del bestiame dovranno affrontare condizioni climatiche senza precedenti». Nessuno può avere la certezza che le piante coltivate e gli animali allevati siano in grado di adattarsi ad un ambiente stravolto dal climate change in virtù della loro diversità genetica. Di fronte ai cambiamenti climatici sempre più repentini, dunque, la FAO sottolinea come siano necessarie delle politiche di sostegno per utilizzare le diversità come meccanismo di sussistenza e per aiutare le colture, il bestiame e gli organismi acquatici a sopravvivere ed essere produttivi anche con climi differenti. Come ha infatti spiegato la Vice Direttrice Generale della FAO, Maria Helena Semedo, «in un mondo più caldo e con condizioni climatiche più estreme e variabili, le piante e gli animali allevati per fornire cibo dovranno avere la capacità biologica di adattarsi più rapidamente di quanto non sia successo sinora».
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