Le specie che stanno colonizzando l’isola di plastica
Tutti ormai conoscono la gigantesca Great Pacific garbage patch, l‘isola di plastica che galleggia sulle acque del Pacifico. Come abbiamo già visto in passato su queste pagine, non è facile definire con esattezza le dimensioni di questo drammatico agglomerato di plastiche. La superficie totale dovrebbe essere tra i 700mila chilometri quadrati (e quindi le dimensioni del Marocco) e i 10milioni di chilometri quadrati (e dunque circa quanto il Canada), in base ai diversi studi e alle differenti misurazioni. Quella che viene chiamata anche Pacific Trash Vortex è ormai una realtà incontrastabile, che dimostra in tutta la sua assurdità le conseguenze negative dell’uso quotidiano della plastica. Ma c’è di più: questa isola di plastica sta cambiando gli equilibri dell’oceano in modo inaspettato, andando a creare degli habitat semi-permanenti lì dove un tempo non esisteva quasi nulla.
C’è vita sull’isola di plastica
Solitamente, in mare aperto, in pieno oceano, la superficie dell’acqua è praticamente del tutto disabitata. A differenza di quanto avviene nei fondali o nei tratti costieri, infatti, non c’è cibo, non ci sono rifugi, e dunque il mare risulta piuttosto disabitato. Così non è invece nel caso dell’isola di plastica. I “pescatori” dell’Ocean Voyages Institute, un’associazione non-profit che da anni si occupa di raccogliere la plastica dall’oceano, si sono infatti accorti di una sempre più ricca quantità di specie marine che hanno preso dimora tra i rifiuti. Si parla soprattutto di anemoni, di piccoli crostacei, di molluschi e di idrozoi, che vivono stabilmente su questo substrato di rifiuti galleggianti.
È stato così costituito un gruppo di ricerca, capeggiato dalla ricercatrice Linsey Haram e dell’università delle Hawaii a Mänoa, il quale ha prelevato oltre 100 tonnellate di rifiuti della Great Pacific garbage patch, analizzando tutti i pezzi di diametro superiore ai 5 centimetri. Ebbene, nel 90% dei casi è stato riscontrata la presenza di animali e di vegetali. Negli studi conseguenti si parla di comunità neopelagiche, a sottolineare il fatto che quelle specie marine non dovrebbero trovarsi in mare aperto. Ma come possono essere quindi arrivate nel bel mezzo dell’oceano?
Come si sono formate le comunità neopelagiche
L’isola di plastica è il risultato dell’incapacità umana di gestire i rifiuti, nonché ovviamente delle correnti che finiscono con il concentrare questi enormi ammassi di plastica in un vero e proprio continente di scarti. Ecco che allora queste specie sarebbero arrivate un poco alla volta dalle coste all’isola di plastica, trasportate da quegli stessi rifiuti in preda alle correnti. Un’importantissima “migrazione” sarebbe da ricondurre all’incidente della centrale nucleare di Fukushima del 2011: in quell’occasione tonnellate di detriti finirono in mare. Stando ai ricercatori, circa 300 specie furono trasportate in mezzo all’oceano proprio come conseguenza dello tsunami.
Le conseguenze
Cosa accade nel momento in cui lì dove non c’era assolutamente nulla si crea una sterminata isola di rifiuti plastici? E cosa succede se quella stessa distesa di spazzatura che galleggia in mezzo all’oceano diventa un habitat di specie abituate a vivere altrove? Tra le domande alle quali i scienziati stanno cercando di trovare risposta c’è anche la questione relativa alla reazione delle poche specie locali di fronte a questi incolpevoli invasori. E cosa potrebbe succedere se, per una concatenazione di eventi meteorologici eccezionali, quelle stesse comunità neopelagiche tornassero verso le coste, magari verso dei territori potenzialmente vulnerabili di fronte all’arrivo di specie aliene?
Capire quali sono le possibili conseguenze di un fenomeno di questa portata, del tutto nuovo e imprevisto, è estremamente difficile. La certezza è però solo una: la colpa è dell’uomo, e le dimensioni di questa colpevolezza sono esattamente quelle dell’enorme isola di plastica.
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