Investire sulle soluzioni climatiche naturali vuol dire aiutare noi stessi e il pianeta
Se la comunità non è in grado di diminuire le emissioni di gas alteranti, provasse ad affidarsi alla natura per risolvere il problema. Una migliore gestione del suolo, infatti, potrebbe avere un ruolo decisivo nella corsa al cambiamento climatico. A suggerirlo l’ultimo studio Natural climate solutions, pubblicato sulla rivista scientifica PNAS da un team di ricercatori che, riprendendo il rapporto pubblicato dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), definisce le soluzioni climatiche naturali un alleato per la riduzione e lo stoccaggio di gas serra nelle foreste, nelle zone umide, nei prati e nei terreni agricoli. Mentre il tempo per un’azione netta di mitigazione climatica si accorcia e alcune tendenze sembrano ormai inevitabili, le soluzione climatiche naturali potrebbero contribuire al raggiungimento, o quanto meno all’avvicinamento, dell’obiettivo previsto dall’accordo di Parigi di limitare la crescita della temperatura media globale sulla superficie delle terre emerse e degli oceani ad un massimo di 2 gradi centigradi, rispetto ai livelli pre-industriali. Oltre a rappresentare un’opzione ragionevole dunque, le soluzioni climatiche naturali permetterebbero di migliorare la produttività del terreno, purificare l’aria e le fonti idriche, e proteggere una biodiversità sempre più a rischio.
I possibili scenari descritti dalle soluzioni climatiche naturali
Con un’attenzione costante ai processi di emissione di gas serra, le soluzioni climatiche naturali coprirebbero il 37% delle azioni di mitigazione necessarie per sfondare il traguardo del 2030 di mantenere il riscaldamento climatico entro i due gradi, senza bisogno di ulteriori iniziative. Venti proposte concrete che mirano ad un Pianeta più verde, in grado di gestire le sfide climatiche che sono state irreversibilmente innescate dallo sperperamento delle risorse imposte dal sistema moderno, il cui valore risiede nel concetto di guadagno economico. La riforestazione, accompagnata dall’uso controllato del suolo per il raccolto, dalla riduzione dei pascoli a favore di aree verdi e di piante che arricchiscano il terreno, svolgerebbe un ruolo chiave nel piano “naturale” per diminuire le emissioni. Al fine di assicurare la sicurezza alimentare, inoltre, sarebbe auspicabile adottare soluzioni agricole che migliorino la gestione del suolo, conservando le aree umide e le torbiere, magazzini naturali di carbonio. Un approccio più “sostenibile” che promuova queste pratiche non solo consentirebbe di diminuire le erosioni e le desertificazioni, ma garantirebbe i cicli naturali e la resilienza al cambiamento climatico.
Anche secondo la FAO, tra le soluzioni climatiche naturali, la tutela delle torbiere è quantomeno centrale se si pensa che il 10 per cento delle emissioni di gas serra prodotte dal settore agricolo, forestale e da altre attività di sfruttamento del territorio vengono dal drenaggio e dagli incendi delle torbiere. Il nocciolo della questione è che invece di accumulare carbonio come dovrebbe essere naturalmente, le torbiere lo rilasciano nell’atmosfera. Le proposte degli autori della ricerca su PNAS, suggeriscono di riappropriarsi della natura per annullare l’effetto dei combustibili fossili.
L’origine antropogenica delle emissioni
L’influenza umana sul cambiamento climatico è ormai chiara e allarmante. Le conseguenze si osservano sia sulla terraferma che sugli oceani con una temperatura dell’atmosfera e degli oceani in aumento, un progressivo incremento del livello del mare e una diminuzione dell’estensione e del volume del ghiaccio terrestre. Kiribati e altre isole del Pacifico rischiano di sparire, la barriera corallina si spegne, il suolo perde il suo potere fertilizzante e disastri ambientali sempre più violenti si abbattono sugli insediamenti urbani. Uno scenario che lascia ben poca immaginazione, che cambierebbe il pianeta così come lo conosciamo e come ci siamo adattati a vivere.
Globalmente, più di due terzi delle emissioni di gas serra sono imputabili al settore energetico, con la produzione di elettricità e di calore, a cui seguono l’agricoltura e la variazione della destinazione d’uso dei terreni e dei boschi. Oltre ad anidride carbonica, infatti, a preoccupare gli esperti ci sono anche i livelli di metano (CH4), con un +256% rispetto ai livelli pre-industriali, il protossido di azoto (N20), la cui percentuale di responsabilità umana per la presenza in atmosfera sfiora il 40%, e i gas fluorurati, generati per lo più dai processi chimici industriali.
E anche se i dati sull’uso rinnovabili lanciano un segnale positivo, Cina, Stati Uniti e i 28 Paesi Membri dell’UE sono tra i principali responsabili di queste emissioni, seguiti dalla sempre crescente potenza economica indiana.
L’organizzazione meteorologica mondiale pubblica i dati sui livelli delle emissioni
Il dato più significativo viene dal biossido di carbonio, l’anidride carbonica, la cui concentrazione è aumentata di più dell’80% tra il 1970 e il 2004, rappresentando ben il 77% delle emissioni totali di gas serra di origine antropogenica nel 2004, secondo l’ultimo rapporto dell’IPCC. Dati confermati dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) che ha recentemente reso noto il raggiungimento di un nuovo inquietante record degli ultimi 800mila anni: la concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera è stata di 403,3 parti per milione (ppm) in media, contro le 400 ppm registrate nel 2015. Secondo gli studiosi, il fenomeno del continente australe “El Nino” ha in gran parte contribuito, provocando ondate di siccità e diminuendo la capacità delle foreste di assorbire CO2.
“Senza un piano per combattere le emissioni di CO2, non possiamo affrontare il cambiamento climatico e mantenere l’aumento della temperatura sotto i 2°C rispetto all’era pre-industriale – ha dichiarato Petteri Taalas, segretario generale del WMO – È di fondamentale importanza che l’accordo di Parigi venga rispettato.”
Al momento infatti, la probabilità di raggiungere un aumento della temperatura di 3 gradi rispetto ai livelli pre-industriali entro il 2100 è più che concreta. La relazione precede la pubblicazione dell’Emissions Gap Report del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) che ha richiamato i decisori politici ad attuare delle strategie efficaci.
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