L’impatto ambientale delle dighe: ne vale la pena?
L’uomo non ha certo iniziato ieri a costruire delle dighe: l’edificazione della prima è databile tra il 2950 e il 2750 a.C, costruita nell‘Antico Egitto per usare in modo più efficiente le acque del Nilo in agricoltura. Da allora, la società umana non ha più smesso di creare barriere lungo i corsi d’acqua, per i più svariati motivi, fino ad arrivare alle attuali centrali idroelettriche. Ma qual è l’impatto ambientale delle dighe? Cosa ha provocato al Pianeta la realizzazione di tutte queste dighe, dalle più piccole alle più grandi?
Le mega-dighe
Non parliamo certo di una decina di sbarramenti, no: l’importanza dell’impatto ambientale delle dighe è amplificata dal fatto che nel mondo ne esistono più di 900 mila, ed il numero non accenna a diminuire. Non sono tutte uguali, certo. Ma l’impatto ambientale delle dighe varia a seconda di molti fattori. Basti pensare, per esempio, che di tutti questi sbarramenti, ben 40 mila sono riconducibili al termine ‘mega-dighe‘, termine un po’ astratto che definisce in modo piuttosto generico tutte le dighe la cui struttura è più alta di 15 metri e produce più di 400 megawatt di energia elettrica.
L’impatto ambientale delle dighe: l’esempio delle Tre Gole
E nonostante l’ovvio impatto ambientale delle dighe, queste strutture continuano ad essere costruite. L’esempio più lampante è quello della diga delle Tre Gole, la più grande struttura del genere mai realizzata nella storia dell’uomo e completata in Cina nel 2006, tra le critiche universali degli ambientalisti. Questa opera è infatti diventata il simbolo dell’impatto ambientale delle dighe: oltre ad aver sommerso più di 1.300 siti di interesse archeologico, 13 città, 140 paesi e 1.352 villaggi e aver forzato il trasferimento di circa 1,2 milioni di abitanti, la diga delle Tre Gole ha distrutto l’habitat di migliaia di specie animali e vegetali. L’esistenza del delfino d’acqua dolce lipote, per esempio, è stata messa seriamente a repentaglio: l’animale era infatti stata dichiarato estinto nel 2006, per essere però avvistato nuovamente l’anno seguente nelle acque dello Yangtze. E il governo cinese non si ferma qui, con decine e decine di altre dighe in costruzione per sganciarsi dall’utilizzo sfrenato di combustibili fossili, sia dentro ai propri confini che fuori. Non è infatti un segreto che gran parte delle dighe in costruzione in Africa, come per esempio in Etiopia e nella Repubblica del Congo, siano finanziate proprio da fondi prevalentemente cinesi. Ma è davvero questa la strada giusta da seguire?
Gli Stati Uniti ci stanno ripensando
L’unico grande Paese che sembra aver recepito il grande impatto ambientale delle dighe sembra essere quello statunitense: nello stesso Stato che si è vantato per anni della propria gigantesca diga di Hoover, ora si sta iniziando a demolire alcuni sbarramenti costruiti negli anni Ottanta, giudicati con 30 anni di ritardo troppo compromettenti per l’impatto su alcune specie di pesci, come per esempio il salmone. Ma i motivi per preferire fonti energetiche alternative a quelle idroelettriche sono tantissimi: dalla perdita di terreno fertile al danneggiamento coatto di foreste, per non parlare poi dell’effetto che si crea a valle degli sbarramenti. Come dimenticarsi per esempio del drammatico prosciugamento del Lago di Aral? La tragedia ambientale, come è noto, è stata determinata proprio dalla costruzione di tanti piccoli sbarramenti lungo i suoi emissari per irrigare i campi di cotone. All’impatto ambientale delle dighe, poi, si somma anche il rischio di incidenti pericolosi per l’uomo, che possono portare a veri e propri disastri. Nella storia d’Italia, a dimostrarlo, ci sono le tragedie del Vajont e del Gleno, e in quella mondiale c’è la catastrofe di Henan, in Cina, che nel 1975 causò la morte di circa 200 mila persone.
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