Ipotizzato il divieto di esportare abiti usati in UE
Come si è arrivati all’ipotesi di introdurre in Unione Europea il divieto di esportare abiti usati, e cosa motiva questa richiesta del tutto particolare, proveniente dalla Francia e appoggiata da Svezia e Danimarca? Per capirlo è bene dare un’occhiata a quello che è lo scenario degli abiti usati. In Italia, stando ad Assoambiente, si parla di un tasso di riutilizzo degli abiti usati raccolti come rifiuti compreso tra il 65% e il 68%. Va però ben compreso cosa si indica con il termine “riutilizzo”: sotto questo ombrello finiscono anche i tessuti che vengono esportati all’estero, in Paesi in cui quegli abiti potrebbero essere destinati al riciclo. Ma dove finiscono gli abiti usati italiani e quelli europei? Bisogna sapere a questo punto che ci sono diversi Paesi che vietano l’importazione di abiti usati, come Cina, India, Brasile e vai dicendo, per tutelare la propria industria del tessile. Ecco che allora gran parte dei Paesi europei che intendono esportare abiti usati lo fanno in direzione dell’Africa, puntando a Mozambico, Ghana e Tunisia, o verso l’Asia, guardando verso il Pakistan. Ma cosa accade davvero a questi tessuti quando arrivano a destinazione? È questo che bisogna sapere per capire perché è stato proposto il divieto di esportare abiti usati.
L’ipotesi del divieto di esportare abiti usati
Si stima che, tra il 2000 e il 2019, la quantità di abiti usati esportati dall’Unione Europea verso Asia e Africa sia triplicata: se alla fine degli anni Novanta si parlava di circa 550mila tonnellate, nel 2019 si è sfiorata quota 1,7 milioni di tonnellate. Certo, l’Agenzia europea dell’ambiente ha fatto notare che nel 2022 c’è stato un calo delle esportazioni, per un totale annuo di 1,4 milioni di tonnellate; ciononostante, guardando al ventennio, l’incremento è enorme. La principale causa, è noto, è l’industria del fast fashion, ovvero degli abiti a poco prezzo e di breve durata. Il problema è che questi abiti usati, una volta giunti a destinazione, non sempre sono una risorsa. Anzi, spesso questi tessuti restano quello che sono, ovvero rifiuti, andando a riempire le discariche africane e a generare ulteriore inquinamento. Tutto questo mentre l’Europa nel suo complesso continua a produrre ogni giorno moli enormi di rifiuti di questo tipo: si stima complessivamente 5,2 milioni di tonnellate tra abiti e calzature ogni anno. E se finora si è preferito “risolvere il problema” spostando i rifiuti altrove, le cose potrebbero cambiare, per l’appunto con l’introduzione di un divieto europeo di esportare abiti usati.
La guerra della Francia al Fast Fashion
A lanciare l’idea di vietare l’esportazione di abiti usati è stato il ministro dell’ambiente francese, che ha annunciato di voler proporre la cosa a livello europeo, con il supporto come anticipato di Danimarca e Svezia. Di certo un’iniziativa simile cambierebbe le carte in tavola, ma è altrettanto sicuro che l’Europa non è affatto pronta a gestire i propri rifiuti tessili: l’economia circolare da questo punto di vista è lontana dall’essere “completa”, e sono pochi i consorzi che si propongono di riutilizzare e riciclare davvero i tessuti.
Su una cosa non ci sono però dubbi: l’iniziativa francese rappresenterebbe un’ulteriore spallata al mondo del fast fashion, già da tempo nel mirino del governo francese. Proprio pochi giorni fa infatti il parlamento di Parigi ha votato un disegno di legge che prevede di istituire una tassa ambientale sui capi prodotti dai grandi marchi del fast fashion: l’idea qui è quella di far pagare un sovraprezzo di 5 euro per tutti i capi del comparto, per poi portare – nel 2030 – la tassa a 10 euro. Tutti i fondi così ricavati, peraltro, dovrebbero poi essere utilizzati per finanziare le aziende che producono abiti in modo sostenibile.
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