L’agricoltura sociale entra nelle carceri
Una fattoria di tre ettari che si affaccia su un fiume e, a pochi passi, il Philadelphia Industrial Correctional Center, una struttura di mattoni rossi circondata da due strati di filo spinato. Questo il paesaggio che si presenta a chi arriva all’istituto penitenziario di Philadelphia, il carcere che da due anni ha deciso di dare la possibilità ai detenuti di scontare la pena imparando a coltivare la terra. Non solo, grazie ad una partnership tra l’istituto e la Temple University, i carcerati possono frequentare dei veri e propri corsi di formazione sui metodi di agricoltura biologica, ottenendo una certificazione finale da poter spendere una volta usciti di prigione. Metodi di coltivazione sostenibili si affiancano ad un efficace sistema di compostaggio, sempre gestito dai detenuti.
“Il programma avviato dall’istituto ha trasformato in un anno 685 tonnellate di rifiuti alimentari in compost – ha dichiarato il sindaco di Philadelphia Jim Kenney -, facendoci risparmiare più di 40mila dollari di costi di smaltimento”.
Molti gli esempi di questo tipo negli Stati Uniti. In particolare nello stato di Washington sono 12 gli istituti che hanno scelto di essere sostenibili, grazie anche al progetto Sustainability in Prisons nato nel 2003 dalla collaborazione tra l’Evergreen State College e il Washington State Department of Correction. Dall’educazione ambientale all’orto biologico, dai progetti di ricerca scientifica al riciclaggio sono numerose le iniziative promosse dal progetto.
E in Italia?
La gestione delle carceri nel nostro paese non è semplice, principalmente a causa dei problemi di sovraffollamento, dovuti in particolare ad una quota consistente di detenuti in attesa di giudizio e al minor utilizzo delle misure alternative al carcere.
Secondo l’ultimo rapporto Istat sono più di 62mila e 500 i detenuti nelle nostre carceri – la capienza massima nazionale è fissata a 47mila e 700 posti – e solo il 23% di questi risulta occupato in attività lavorative. Nonostante ciò, negli ultimi anni nel nostro Paese alcuni istituti hanno deciso di promuovere l’orticoltura come nuova forma di lavoro interna al carcere.
Il carcere femminile della Giudecca
Sono 78 le donne ospitate dal carcere femminile della Giudecca, il 73% di queste condannate in via definitiva. In controtendenza con la media nazionale, la maggior parte lavora. Sette di loro in particolare hanno scelto di occupare il loro tempo nell’orto dell’istituto gestito dalla cooperativa Rio Terà dei Pensieri. Dal radicchio trevigiano alle erbe officinali, dal broccolo padovano ai peperoncini, in questo angolo di Giudecca che si estende per seimila metri quadri, si coltiva un po’ di tutto senza l’utilizzo di sostanze chimiche. Ciò che viene prodotto viene in parte venduto ad un mercatino che le detenute stesse gestiscono e in parte distribuito ai gruppi solidali della zona. Il raccolto non viene utilizzato nella mensa del carcere, ma alcune donne ogni tanto acquistano qualche ortaggio per cucinare su piccoli fornelli da campeggio i piatti della loro tradizione. Solo le erbe aromatiche e officinali vengono utilizzate all’interno della prigione per il laboratorio di cosmetica dell’istituto, che confeziona detergenti, balsami e creme.
Secondigliano di Napoli
Prodotti biologici e di stagione. Dal 2014 anche il centro penitenziario di Secondigliano di Napoli da la possibilità ad 8 detenuti – tra cui ergastolani e pregiudicati sottoposti a regime di carcere duro – di curare un orto. In questo caso ciò che viene prodotto viene utilizzato per aiutare famiglie in difficoltà oppure venduto, utilizzando poi i ricavati per acquistare altri semi e attrezzi per il lavoro. Inoltre dal 2015, grazie ad un accordo tra la Regione Campania e il penitenziario è sorta una cooperativa con lo scopo di immettere nel mercato alcuni prodotti tipici coltivati dai detenuti, grazie al supporto tecnico degli agronomi dell’assessorato che hanno selezionato sementi geneticamente legate al territorio.
Il riscatto sociale
Lavorare la terra non è solo una delle tante attività lavorative che un detenuto può intraprendere durante il suo percorso in carcere. Lavorare la terra è un’opportunità concreta di riscatto per molti di loro. In Italia in particolare il ruolo dell’agricoltura sociale, che coniuga le pratiche agricole con quelle di reinserimento sociale, sta crescendo di importanza.
«L’agricoltura, in particolare quella sociale – ha affermato don Franco Monterubbianesi, fondatore della Cooperativa Agricoltura Capodarco a Fermo – può offrire sbocchi occupazionali importanti e aprire delle nuove strade,anche in virtù dei suoi risvolti nel campo dell’ecosostenibilità e del turismo. Ma la terra presuppone capacità imprenditoriali, formazione, passione autentica, resistenza. Dobbiamo dunque puntare sulla formazione dei giovani, anche con l’aiuto delle istituzioni locali».
Ti è piaciuto l'articolo?
Condividilo