Le ombre dietro al Patto di Dubai sul clima
Sono passati dei giorni dalla fine della Cop28 di Dubai, e si è avuto così modo di leggere, rileggere e analizzare quanto riportato negli accordi finali della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ospitata dagli Emirati Arabi Uniti. E se fin dalle prime ore dalla stipula erano stati indicati diversi punti critici all’interno del Patto di Dubai sul clima, nei giorni seguenti gli osservatori più attenti hanno potuto indicare altre piccole e grandi ombre, le quali concorrono a ridimensionare almeno in parte la portata degli accordi e degli impegni per il futuro. Talvolta si parla di scelte lessicali – forse volutamente – ambigue, altre volte di vere e proprie lacune volontarie, nonché di libertà eccessive concesse ai singoli Stati. Non si può parlare di vere e proprie sorprese: chi ha seguito le diverse Cop negli anni precedenti sa molto bene quanto sia importante l’analisi degli accordi finali per capire realmente i passi avanti, tipicamente “enfatizzati” e ingigantiti durante le conferenze stampa. In questa edizione, però, il testo finale è particolarmente importante: il Patto di Dubai è e sarà infatti quello della prima Global Stocktake. Certo, la prima di tante, ma anche l’ultima per poter correggere la rotta prima che sia troppo tardi. La revisione – così come indicato dagli Accordi di Parigi – sarà infatti tra 5 anni, ovvero eventualmente troppo tardi per apportare le correzioni opportune per rispettare la soglia degli 1,5° gradi di aumento delle temperature. Ma quali sono nel concreto le storture, i dubbi e le criticità del Patto di Dubai? Una valutazione completa e chiara è stata fatta da Climate Analytics: vediamo i risultati dell’indagine.
“Transizione” e “sistemi energetici”: il lessico del Patto di Dubai
A fare la differenza, in contratti come il Patto di Dubai, sono spesso le minime scelte lessicali. Si parla infatti di accordi nati da compromessi tra tantissime parti, dove ogni dettaglio può cambiare diametralmente il risultato. Tanta attenzione è stata per esempio concentrata sulla scelta della parola “transizione”. Si era infatti spinto per parlare del “phase out” dai combustibili fossili, oppure del “phase down”, per arrivare infine alla “transizione”, che non indica chiaramente ed esplicitamente un’eliminazione dei combustibili fossili. Ma a Climate Analytics fa notare che, nella frase fondamentale del Patto di Dubai sull’avvio della “transizione dai combustibili fossili nei sistemi energetici”, a generare maggiore incertezza sono in realtà le ultime due parole. Cosa si intende per “sistemi energetici”? Oggettivamente, si dovrebbe parlare di qualsiasi tipo di fornitura e di uso di energia, comprendendo dunque industrie, trasporti, uso domestico e via dicendo. È stato però fatto notare che qualcuno potrebbe fraintendere intenzionalmente questo termine, intendendo dunque la transizione solo nel campo dell’utilizzo, non in quello della fornitura. Cosa che ovviamente farebbe cadere tutto il “castello di carte” che permetterebbe di rispettare la soglia degli 1,5° gradi.
Carbone e gas fossile
Tra le criticità del Patto di Dubai c’è poi la mancanza di riferimenti concreti per la data di dismissione delle centrali di carbone. Le indagini più recenti e più complete ci dicono che è necessario portare a termine l’allontanamento dal carbone entro il 2040, ma nulla di tutto questo trova riscontro negli accordi finali della Cop28. Va poi detto che all’altezza del paragrafo 29 del Patto di Dubai si sottolinea il ruolo dei “combustibili di transizione” ovvero di fatto anche del gas fossile: questo sarebbe un favore fatto alla Russia, e non solo.
La cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica
Altra criticità individuata nel Patto di Dubai è quella relativa al riconoscimento del ruolo delle tecnologie per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica. La quale, secondo gli scienziati del clima, non può essere impiegata su larga scala per la decarbonizzazione dei già visti sistemi energetici, non se l’obiettivo è quello di restare al di sotto degli 1,5 gradi. Il pericolo, come è noto, è che si possa vedere nella cattura della CO2 una giustificazione per continuare a inquinare.
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