Finanziamenti all’industria della carne: 1.200 volte in più rispetto a carne vegetale e coltivata
Nei Paesi ad alto reddito, il consumo pro capite di carne è molto vicino e talvolta superiore ai 100 chilogrammi all’anno. Al di là delle questioni etiche e delle varie scelte per la propria alimentazione, una cosa è certa: ridurre il consumo di carne è tra i comportamenti individuali più preziosi per combattere i cambiamenti climatici. Questo perché, analizzando i consumi di acqua e di energia necessari per gli allevamenti, la necessità di aree coltivabili, l’inquinamento legato all’industria delle carne e via dicendo, non ci sono dubbi nell’affermare che tale comportamento alimentare non è sostenibile. Ecco che allora diventa molto importante proporre delle effettive alternative ai consumatori, nonché informare il pubblico sull’inquinamento legato al consumo eccessivo di carne. Come prevedibile, uno studio ha però dimostrato due cose: prima di tutto che i finanziamenti all’industria della carne sono di gran lunga superiori rispetto a quelli indirizzati verso l’industria della carne coltivata e vegetale; in secondo luogo, che vi è troppa poca informazione sull’impatto ambientale della produzione di carne, soprattutto a livello delle linee guida alimentari ufficiali.
Lo studio: i finanziamenti all’industria della carne
Lo studio che compara i finanziamenti all’industria della carne con quelli rivolti alla carne vegetale e coltivata è stato pubblicato sulla rivista One Earth, andando ad analizzare le principali politiche agricole messe in campo negli Stati Uniti e in Unione Europea tra il 2014 e il 2020. A firmare lo studio sono stati Eric Lambin e Simona Vallone, entrambi della Stanford University. Si scopre così che a bloccare il processo di riduzione del consumo di carne è in primo luogo proprio lo “strapotere” economico dell’industria della carne, la quale può godere di finanziamenti di gran lunga superiori.
Analizzando regolamenti e sussidi gli studiosi sono arrivati a dimostrare che i finanziamenti all’industria della carne nell’Unione Europea sono 1.200 volte superiori rispetto a quelli destinati alle realtà dedicate alla produzione di carne coltivata e vegetale. E certo, non è strano che un’industria grande come quella della carne attiri finanziamenti maggiori rispetto a quella ancora “neonata” della carne vegetale; guardando però al medesimo fenomeno dalla prospettiva dei cambiamenti climatici, e sapendo che il 15% delle emissioni di gas a effetto serra arriva proprio dagli allevamenti, il discorso cambia parecchio. E se in UE i finanziamenti all’industria della carne sono 1.200 volte superiori, negli Stati Uniti si parla di circa 800 volte in più.
Il problema delle linee guida per il consumo alimentare
Non si parla peraltro solamente di soldi. A bloccare e rallentare la crescita delle alternative vegetali e coltivate non sono solamente i finanziamenti all’industria della carne: anche il lessico usato e le linee guida fanno la loro parte. Lo studio ha per esempio segnalato i regolamenti che fin dal 2017 fanno divieto nell’Unione Europea di usare termini come “latte” o “formaggio” per le alternative ai latticini; negli Stati Uniti si è persino arrivati a una proposta per vietare la vendita di alternative alla carne a meno che le confezioni non riportino la parola “imitation”.
Sono inoltre finite sotto l’attenzione degli studiosi le linee guida nazionali alimentari, le quali influenzano le diete di milioni di persone che ogni giorno mangiano negli enti pubblici, e quindi in scuole, ospedali, carceri e via dicendo: in nessuno dei documenti statunitensi consultati sono stati trovati riferimenti all maggior inquinamento connesso al consumo di carne, mentre in Unione Europea sono stati trovati dei riferimenti solamente nelle linee guida di 4 Paesi (su 27).
Come ha spiegato Eric Lambin sulle pagine del Guardian, «il nuovo settore deve avere la possibilità di espandersi e di guadagnare efficienza. Successivamente, i consumatori potranno scegliere autonomamente, e gli scienziati giudicheranno se è davvero meglio per l’ambiente e per la salute. Ma se questo nuovo settore non può nemmeno svilupparsi fino a un livello che ci permetterà di fare queste valutazioni, sarà un’opportunità persa per passare a un sistema alimentare sostenibile».
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