La Porta dell’Inferno e il problema delle perdite di gas nel Turkmenistan
A sentire nominare le parole “Porta dell’Inferno” ognuno di noi pensa a qualcosa di differente. C’è chi pensa, per esempio, alla porta degli inferi danteschi, quella sormontata, per intenderci, dalle parole “lasciate ogni speranza, voi ch’intrate” specificando che “per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente”, e via dicendo.
Qualcun altro, ferrato più in storia dell’arte che in letteratura, potrebbe invece pensare alla famosa scultura incompiuta di Auguste Rodin, il cui modello di fusione è stato trasferito poche settimane fa proprio presso le Scuderie del Quirinale, a Roma.
Di certo i pochi abitanti del paesino di Derweze, un piccolo agglomerato urbano a 250 chilometri dalla capitale turkmena Ashgabat, pensano a tutt’altro. Per loro la Porta dell’Inferno è una sola, ovvero il cratere fiammeggiante che da decenni brucia all’orizzonte.
Come si è formata la Porta dell’Inferno in Turkmenistan
Di certo il Turkmenistan non rappresenta una grande meta turistica. Questa repubblica post-sovietica conta circa 6 milioni di abitanti, ed è in gran parte desertica. Ad attirare la curiosità di alcuni – non troppi – turisti stranieri è la famosa Porta dell’Inferno, ovvero un cratere che brucia ininterrottamente fin dagli anni Settanta. Non si tratta di un fenomeno spontaneo.
A dare il via a questo incendio che sembra eterno sono stati dei geologi sovietici, che nel 1971 iniziarono a fare dei test in quest’area per trovare nuovi giacimenti di gas naturale, di cui il Turkmenistan, come vedremo, è ricchissimo. I sovietici trovarono una caverna ricolma di gas naturale, la cui volta rocciosa, a causa dei lavori di trivellazione, finì per soccombere. I tecnici, per evitare la dispersione di gas nocivi, decisero di dare fuoco al gas. L’idea era quella di provocare un incendio che, in pochi giorni, avrebbe consumato tutto il combustibile. Non fu così: ancora oggi, a 50 anni di distanza, quel cratere dal diametro di 70 metri continua a bruciare, rappresentando un fenomeno geologico decisamente notevole.
Certo, la Porta dell’Inferno, con il suo continuo bruciare di gas naturale, rappresenta una fonte di inquinamento che non può essere trascurata. Va però detto che la fuoriuscita di gas incombusti come il metano sarebbe peggiore. Ecco quindi che questo incendio continua ancora oggi, con le fiamme visibili a chilometri di distanza e con un forte odore di zolfo che permea l’aria tutt’attorno alla voragine. Non stupisce nessuno, quindi, che gli abitanti di Derweze (per lo più seminomadi della tribù Tekke) abbiano battezzato questo cratere proprio in questo modo.
Il problema del gas naturale turkmeno
Se la Porta dell’Inferno è discretamente conosciuta all’estero, attirando in Turkmenistan qualche turista. È anche vero che in passato è stato più volte ipotizzata la chiusura del cratere. La chiusura non è però stata ipotizzata per porre fine all’incendio in sé e per sé, ma per non frenare lo sviluppo di altri vicini giacimenti di gas naturale.
Ricordato questo, va sottolineato anche che la Porta dell’Inferno non è certo l’unica via d’uscita del gas naturale in questo paese dell’est. Nel 2019 la società di monitoraggio Kayrros avrebbe classificato i 50 rilasci di metano nell’atmosfera più gravi a livello mondiale; di questi, ben 31 si trovano proprio in Turkmenistan.
Stando all’Agenzia internazionale per l’energia, questo paese sarebbe il terzo a livello internazionale per le emissioni di metano, dietro alle sole Cina e Russia. Questo, va detto, pur sapendo che il Turkmenistan conta un numero di abitanti di poco superiore alla regione Lazio. Sotto la lente di ingrandimento ci sono ovviamente i giacimenti per l’estrazione di gas naturale, che presentano perdite enormi, che vanno avanti da anni, con esisti drammatici per la salute del pianeta.
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