Le foreste tropicali emettono più carbonio di quanto ne assorbono
Per anni le abbiamo chiamate ‘polmoni del pianeta’, ma oggi sembra che non lo siano praticamente più. Le foreste tropicali, un tempo magnifica e lussureggiante distesa verde che si distendeva nel Sud America, in Africa centrale, nel sud Asiatico e in tantissime isole del Pacifico, sono state anno dopo anno attaccate dall’uomo, e hanno così perso gran parte della loro funzione di ‘inspirare’ anidride carbonica ed ‘espirare’ ossigeno. Anzi, stando ad un recente studio, le foreste tropicali oggi emettono più carbonio di quanto riescano a catturarne. Più precisamente, le foreste tropicali sono arrivate ad emettere due volte la quantità di carbonio che sono in grado di consumare.
Lo studio del team di Alessandro Baccini
Lo studio di cui stiamo parlando porta la firma del team coordinato dallo scienziato italiano Alessandro Baccini del Wood Hole Research Center, ed è stato pubblicato sulla rivista Science con il titolo ‘Tropical forests are a net carbon source based on aboveground measurements of gain and loss’. Sono tanti gli spunti interessanti che escono da questo rapporto, ma ce n’è soprattutto uno che prende il sopravvento sugli altri: fermare ogni tipo di aggressione alle foreste tropicali potrebbe ridurre le emissioni globali di carbonio dell’8%.
Gli effetti della degradazione sulle foreste tropicali
La vera novità dello studio sta nel nuovo metodo di misurazione delle emissioni di carbonio. Se infatti si è soliti parlare unicamente di deforestazione, il team di ricercatori questa volta è andato più in là ed ha allargato lo sguardo, andando a misurare anche gli effetti della più semplice degradazione forestale. Ma che cos’è la degradazione forestale? Come ha spiegato all’Agi Baccini, è l’insieme di «tutti quei fenomeni e azioni che vanno a cambiare la foresta. Ad esempio il taglio di alcuni alberi (teniamo presente che il 70% dei Paesi in via di sviluppo utilizza ancora il legno come fonte principale di energia), o gli incendi o la morte naturale delle piante, magari causata dalla siccità». Se infatti si pensa che circa la metà della biomassa di un albero è costituita da carbonio, si può intuire che, al momento della rimozione della pianta, quella quantità di gas viene rilasciata nell’atmosfera, andando così a fare esattamente il contrario rispetto al ruolo naturale della vegetazione.
Misurare le perdite più piccole
«Fino a qualche anno fa» ha commentato Baccini «si poteva misurare solo la quantità di emissioni derivanti dalla deforestazione, ma non si conoscevano quelle causate dalla degradazione». Attraverso immagini satellitari, misurazioni sul campo e tecnologia laser sono state così misurate quante perdite ci sono state nelle foreste tropicali a partire dal 2003. Come ha voluto sottolineare un altro membro del team, Wayne Walker, «può essere difficile mappare le foreste che sono andate completamente perse, ma è ancora più difficoltoso misurare le perdite più piccole e sottili».
Catturare l’anidride carbonica in modo naturale ed economico
«Le foreste» spiega Baccini «costituiscono l’unica tecnologia a nostra portata per catturare il carbonio in modo sicuro, collaudato, economico, immediatamente disponibile su larga scala e capace di produrre molti effetti positivi, dalla regolazione delle precipitazioni fino al fornire un mezzo di sostentamento alle comunità indigene». Negli ultimi mesi su queste pagine abbiamo parlato delle tecnologie ‘artificiali’ per catturare l’anidride carbonica, ma è ovvio che i costi di produzione – a livello globale – sono per ora proibitivi, soprattutto se comparati a quelli delle foreste tropicali e non, che sono – in parte erano – già pronte all’uso.
Invertire il trend
L’algoritmo messo a punto dal team di ricerca per calcolare sia la densità delle piante di una foresta che il loro sviluppo verticale può fornire sufficienti dati per supportare un’inversione del trend. Per rallentare il cambiamento climatico, infatti, è necessario impegnarsi per riportare le foreste tropicali ad assorbire più anidride carbonica di quanta ne viene emessa. «Tutto questo» ha chiosato Baccini «avrebbe un costo relativamente basso rispetto ad altre azioni che si potrebbero mettere in campo e migliorerebbe la vita di molte popolazioni, moltiplicando così i benefici dell’intervento».
Un laser satellitare per misurare le piante
Non è certo da ieri che Alessandro Baccini studia le foreste tropicali e mondiali. Lo scienziato si è infatti trasferito in America nel 2000 e, insieme al Woods Hole Research Center – considerato per quattro anni di fila come il migliore think tank per il cambiamento climatico – ha iniziato a misurare ed analizzare accuratamente la vegetazione globale, con dei contributi da parte della Nasa e della Boston University. Nel 2005 il centro aveva iniziato uno studio per provare a dare una risposta alla domanda ‘quanto sono alte le foreste della terra?’ andando a costruire una mappa ad alta risoluzione attraverso l’utilizzo di particolari dati satellitari. Su un veicolo spaziale, infatti, era stato montato un radar ottico il quale, attraverso 2,5 milioni di misurazioni laser, ha misurato l’elevazione delle foreste, scoprendo così che l’altezza media delle piante era più elevata rispetto a quanto era comune pensare, e che potevano così avere un ruolo ancora maggiore nel prevenire i cambiamenti climatici.
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