Dall’Albania allo Zimbabwe: 139 Paesi 100% rinnovabili entro il 2050, ecco come
Tutti i Paesi che hanno ratificato gli Accordi di Parigi si sono sostanzialmente impegnati ad abbandonare i combustibili fossili e iniziare il proprio cammino per divenire al 100% rinnovabili. Certo non è un percorso facile, e gli ostacoli sono molti: ci sono gli interessi delle lobby petrolifere, ci sono i politici che prendono sottogamba le minacce del cambiamento climatico, ci sono i costi di una rivoluzione tecnologica, c’è la paura del nuovo… eppure tutti i Paesi del mondo possono diventare al 100% rinnovabili relativamente in poco tempo, con l’impegno – economico ma non solo – necessario. Di più: una ricerca della Stanford University dimostra nello specifico come ben 139 Paesi nel mondo, con i giusti investimenti, potrebbero divenire al 100% rinnovabili entro il 2050.
Il cammino per diventare al 100% rinnovabili
Lo studio in questione è stato portato avanti e coordinato dal professore di ingegneria civile ed ambientale Mark Z. Jacobson, il quale, insieme ad un gruppo di altri ricercatori, ha descritto 139 diverse roadmaps che i 139 diversi Paesi presi in considerazione dallo paper dovrebbero seguire per emanciparsi completamente dalle fonti combustibili entro il 2050. Lo studio, pubblicato sulla rivista scientifica Joule, prendi infatti in considerazione ogni singolo paese, dall’Iran al Nicaragua, dallo Zambia alla Norvegia, passando per il Canada e l’Australia. Questo paper poggia, in quanto a struttura, su uno studio precedentemente pubblicato da Jacobson sui soli Stati Uniti: in quella sede il professore aveva infatti dimostrato un’ipotesi di cammino da intraprendere per la transizione energetica del proprio Paese.
La Svizzera verso l’idroelettrico, l’Italia verso il fotovoltaico
La base è uguale per tutti i Paesi analizzati: bisogna abbandonare carbone, petrolio e gas, elettrificare qualsiasi settore e darsi ad un mix di eolico, fotovoltaico, idroelettrico, geotermico e quant’altro. In questo modo, case, auto, treni, navi, aerei e macchinari industriali dovrebbero dunque funzionare ad elettricità green. Ma attenzione, solo la base è comune. Ogni singolo Paese, poi, ha un cammino diverso da intraprendere, a seconda della propria posizione geografica, del tipo di orografia, della lunghezza delle coste, insomma, delle sue caratteristiche innate. Un Paese senza sbocchi sul mare non può certo sfruttare l’eolico offshore, così come uno Stato con un irraggiamento solare debole non punterà tutto sul fotovoltaico. Da notare che, per rendere tutti questi 139 Paesi al 100% rinnovabili, Jacobson non ha mai incluso la possibilità dell’energia nucleare, a causa del suo impatto ambientale e per i rischi legati alla sicurezza. Ed è così che il Sudan, per esempio, farà affidamento in gran parte sul fotovoltaico installato sul tetto degli edifici, mentre la Svizzera dovrebbe puntare la sua attenzione sull’idroelettrico. E l’Italia? Beh, secondo il team di studiosi l’Italia potrebbe razionalmente decidere di soddisfare il 65,8% del proprio fabbisogno con degli impianti solari di grandi dimensioni, affiancandoli al 6,3% di pannelli fotovoltaici privati, all’11% dell’eolico onshore, al 5,1% e al dell’idroelettrico, affidandosi per la restante percentuale ad un mix di altre fonti rinnovabili, come offshore ed energia geotermale.
Un investimento da 125 mila miliardi di dollari
A livello mondiale, guardando alle ipotesi di Jacobson, il 58% dell’energia dei Paesi al 100% rinnovabili proverebbe da fotovoltaico, il 37% dall’eolico, e il resto principalmente dall’idroelettrico, dagli impianti geotermici e da quelli di sfruttamento del movimento ondoso. E di certo centrare un tale risultato non sarà economico: in tutto si dovrebbero spendere 125.000 miliardi di dollari, una cifra immensa. Ma il fatto di installare circa 50 terawatt di energia solare, idroelettrica ed eolica a livello planetario sarà prima di tutto un enorme investimento, di fatto l’unico che può garantirci di centrare gli obiettivi di Parigi, ovvero in estrema sintesi restare al di sotto dell’aumento di 1,5 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale. Certo, 125.000 miliardi di dollari possono sembrare tanti, ma cosa sono se raffrontati ai 5 milioni di decessi che avremmo a partire dalla metà del secolo a causa dell’inquinamento, ogni singolo anno? E cosa sono se raffrontati alle catastrofi ambientali che colpiranno in nostri Paesi in termini di vite umane, di impatti all’ambiente, all’agricoltura, alla pesca e all’economia? E ancora, cosa sono se raffrontati alle ondate di calore, all’innalzamento del livello dei mari, alle siccità?
I modelli ai quali guardare
Di certo non è una mera questione economica. La maggior parte delle tecnologie è già sufficientemente sviluppata, mentre altre – come per esempio gli aeroplani elettrici – sono ancora lì da venire. Ma mentre si aspettano il completo sviluppo tecnologico e soprattutto i fondi per avviare la transizione energetica vera e propria, si può prendere come esempio chi ha già portato a termine questa rivoluzione: Georgetown, Kisielice, Burlington, sono città che già oggi si dichiarano orgogliosamente al 100% rinnovabili. Tante altre città stanno cercando di imitarle, e tantissime altre compagnie hanno già fatto altrettanto: per adesso sono pregevoli eccezioni, ma nei prossimi decenni potrebbe – dovrebbe – diventare prassi comune.
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