Politiche ambientali Usa, serpeggia la censura preventiva, mentre nasce un’alleanza ribelle
Non deve essere assolutamente facile per Trump e per i suoi luogotenenti censurare i propri stessi dipartimenti dopo che per anni, con l’amministrazione Obama, le politiche ambientali Usa sono state dirette a combattere il cambiamento climatico. Sì, perché le politiche ambientali Usa non sono unicamente una faccenda di calcoli, di dati e di norme. No, sono anche una questione di linguaggio. Come sappiamo Trump ha dichiarato più volte di non credere al cambiamento climatico, e ha ribadito nel concreto questa sua convinzione facendo uscire dagli Accordi di Parigi gli Stati Uniti. Ora, dopo questa giravolta nelle politiche ambientali Usa, al presidente non resta che convincere i suoi stessi cittadini che non c’è alcuna emergenza di carattere climatico. Per fare questo, però, bisogna prima di tutto che i propri scienziati e i propri dipartimenti smettano quanto prima di parlarne. Proprio così, in questo senso abbiamo a che fare con qualcosa di abbastanza simile alla censura.
Le politiche ambientali Usa e la censura linguistica
Se le nuove politiche ambientali Usa poggiano sul fatto che il cambiamento climatico è una bufala, questo significa che il fenomeno non deve essere in alcun modo nominato nei documenti governativi. Per questo motivo, a quanto pare, il Dipartimento dell’Agricoltura statunitense (USDA) avrebbe chiesto ai propri dipendenti di non parlare più di cambiamento climatico, quanto invece di ‘estremi meteorologici’. A dimostrarlo sono delle email riportate dal Guardian, le quali come si poteva immaginare hanno fatto un certo scalpore. A innescare questo strano processo di censura linguistica, stando alle email finite tra le mani dei giornalisti e quindi sulle pagine del quotidiano, sarebbe stata una email di Bianca Moebius-Clune, responsabile del team del Dipartimento addetto al contenimento del deterioramento del suolo. Ebbene, nella sua email si legge che non solo ‘climate change’ non può essere usato, ma nemmeno ‘adattamento al cambiamento climatico’, sostituito da ‘resistenza agli estremi meteorologici’. Il fondamentale comandamento ‘ridurre i gas serra‘, nella email di Bianca Moebius-Clune diventa invece ‘accrescere la materia organica del suolo e aumentare in modo efficiente l’utilizzo delle sostanze nutritive. ‘Eliminare l’anidride carbonica’ diventa infine ‘ accrescere la materia organica del suolo’. «Non stiamo cambiando il nostro modo di lavorare» ha spiegato ai propri sottoposti e colleghi Moebius-Clune, «stiamo solo cambiando il nostro modo di parlarne – ci sono molti benefici nello sfruttare l’anidride carbonica nell’utilizzo del terreno, e la mitigazione climatica è solo uno di questi».
E l’integrità del lavoro scientifico?
Chi si interessa alla battaglia contro il cambiamento climatico sa però che introdurre l’eccesso di CO2 nel ciclo agricolo è un processo nato appositamente per mitigare i cambiamenti climatici riducendo il tasso di gas serra nell’atmosfera. Sembra che anche il responsabile della programmazione del Natural Resources Conservation Service Jimmy Bramblett abbia ricevuto la email di Moebius-Clune, o che perlomeno ne abbia ricevuta una simile dall’alto. In una email intercettata l’uomo viene infatti sorpreso a scrivere
«è ormai chiaro che una delle priorità della vecchia amministrazione non è più tale con la nuova amministrazione. Precisamente, quella priorità è il cambiamento climatico. Per favore, incontra il tuo staff e spiega loro questo scostamento di prospettiva».
Ovviamente nelle intercettazioni si incontra poi talvolta un certo grado di confusione – se non talvolta di esplicita resistenza – nei confronti della censura. Dopo anni di politiche ambientali Usa tese in linea generale alla sostenibilità, non ci si può certo stupire nel leggere email di impiegati che scrivono «preferiremmo mantenere il linguaggio come è» enfatizzando poi l’importanza «dell’integrità del lavoro scientifico».
La nascita della United States Climate Alliance
Insomma, la censura linguistica preventiva è l’ultima mossa dell’amministrazione Trump nel campo delle nuove politiche ambientali Usa: oltre all’uscita dai patti di Parigi possiamo ricordare l’involuzione dell’EPA e la decisa riapertura nei confronti dell’attività di estrazione di combustibili fossili. Ma insieme al presidente va sottolineato che non tutti gli americani hanno cambiato idea, anzi, ci sono molti repubblicani che hanno idee completamente diverse quanto alle politiche ambientali Usa. Il dissenso sta infatti via via prendendo forma. L’espressione ad oggi più plateale di questo contrasto è stata la nascita e la crescita della United States Climate Alliance. Tre gli Stati fondatori, ovvero California, New York e lo Stato di Washington, seguiti poi dall’entrata di altri 9 stati USA, con l’aggiunta di Portorico. Come ha spiegato il governatore californiano Edmund G. Brown,
«non credo che combattere la realtà sia una buona strategia, non lo è per l’America, non lo è per nessuno. Se il Presidente vuole essere un assente ingiustificato in questa importante impresa umana, allora la California e altri Stati si alzeranno in piedi».
In tutto, gli Stati che formano la Climate Alliance rappresentano più del 33% della popolazione statunitense, potendo contare su circa 7 mila miliardi del Prodotto Interno Lordo Usa. Insomma, non sono briciole e, come affermato dal governatore democratico del Colorado Hickenlooper, «questa prima ondata crescerà fino a diventare un movimento nazionale». Già adesso, del resto, Trump non può far finta di ignorare l’esistenza di questa alleanza ribelle: tutti i governatori che ne fanno parte si sono infatti impegnati per centrare gli obiettivi degli Accordi di Parigi.
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