Le reti da pesca fantasma, killer dei nostri mari
Sotto il livello del mare, ogni giorno, avviene un delitto. Squalo bianco? No, le reti da pesca fantasma. Trascinate dalle correnti, si muovono per km uccidendo ogni forma di vita marina. Ghost Fishing e altri progetti d’avanguardia recuperano e riciclano gli attrezzi da pesca dispersi.
Reti da pesca fantasma e gabbie abbandonate: cosa sono e cosa fanno
Le reti da pesca fantasma e le gabbie abbandonate per la cattura di granchi, aragoste e gamberetti si definiscono anche attrezzi da pesca abbandonati, persi o scartati (ossia abandoned, lost or discarded fishing gear o ALDFG). Funzionano in diversi modi: le reti da pesca fantasma vagano per i mari catturando pesce e altri organismi marini senza alcun beneficio per l’uomo, oltre a soffocare la barriera corallina. Una rete fantasma cattura circa il 5% della quantità di pesce commerciabile mondiale. Le gabbie abbandonate diventano trappole mortali per centinaia di granchi e altri esseri marini. Una sola gabbia può uccidere oltre 1775 esemplari in un anno per un valore fino a 18.000€, secondo California SeaDoc.
Il problema è noto ai sub che frequentano i fondali marini e ben visibile soprattutto nelle aree di pesca.
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Ghost Fishing
Per risolverlo nel 2013 è nata Ghost Fishing, un’organizzazione non-profit fondata da un gruppo di sub del Mare del Nord per il recupero delle reti da pesca fantasma e il loro smaltimento. Le prime missioni sono state in Olanda, Croazia e Italia. Ora Ghost Fishing è una rete internazionale di sub che collabora con istituzioni e organizzazioni per la protezione dei mari come l’European Center for Nature Conservation.
Cas Renooji, direttore di Ghost Fishing, spiega che la pulizia dei fondali e l’eliminazione delle reti fantasma è diventata la priorità per proteggere la vita marina. Si stima che ci siano 640.000 tonnellate di reti da pesca fantasma negli oceani, ossia il 10% dei rifiuti oceanici, secondo il report della FAO e del Programma per l’ambiente delle Nazioni Unite.
Il recupero delle reti fantasma in Italia
Ghost Fishing da visibilità e sostegno a progetti di pulizia in tutto il mondo: dalle Maldive al Mediterraneo. In Italia, ad esempio, c’è un piano di ripulitura dei fondali dell’Area Naturale Marina Protetta di Portofino, iniziato nel 2010 su proposta di un gruppo di sub locali. E dal 2013 anche al Lago d’Iseo la North Central Divers ha iniziato la rimozione delle reti da pesca fantasma in collaborazione con la Guardia Costiera del lago d’Iseo.
Danni e cause dell’inquinamento dei mari
Oltre ai progetti di pulizia locale, ne esistono anche a larga scala. Lo stato di Washington (Stati Uniti) ha avviato il programma di rimozione degli attrezzi da pesca abbandonati nello Stretto di Puget. Qui gli ALDFG uccidono oltre mezzo milione di creature marine ogni anno, secondo le stime della Northwest Straits Marine Conservation Initiative. Il piano prevede il recupero e lo smaltimento di 4500 reti, 3081 gabbie per granchi e 47 gabbie per gamberetti. Tuttavia prevenirne la perdita o l’abbandono è meno costoso: lo stato di Washington spende circa 190 Dollari per il recupero di un’unica gabbia dispersa.
Fino al 1950-1960 le reti da pesca erano costruite in materiale biodegradabile (canapa o cotone). Con l’invenzione e la diffusione di materiali sintetici come il nylon, le reti possono restare attive per centinaia di anni. Alcuni tipi di plastica possono durare fino a 600 anni. E quando le reti si rompono, causano la morte degli animali che la confondono per gli organismi marini di cui si cibano.
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Le difficoltà del recupero e dello smaltimento degli attrezzi da pesca dispersi
Gli ostacoli sono molti, a partire dalle trattative con i pescatori. Per le ONG e le organizzazioni ambientali è complicato prendere accordi con loro: le regole regionali, le quote di cattura, l’estrema variabilità degli strumenti da pesca e la mancanza di incentivi ad usare reti e gabbie biodegradabili complicano la situazione. In Olanda abbiamo preso accordi con i pescatori per l’uso di strumenti biodegradabili. E’ un piccolo passo ma siamo ottimisti, spiega Ranooji.
Mancano dati certi sulla problematica e la normativa è obsoleta: la Convenzione internazionale per la prevenzione dell’inquinamento dalle navi del 1973 è rimasta sulla carta ed andrebbe aggiornata. Se le pulizie locali iniziano grazie alla volontà di salvaguardare la biologia marina, è difficile attivarsi nelle acque internazionali. Inoltre anche gli impianti costieri avrebbero bisogno di una bonifica, quando in disuso.
Energia e prodotti di consumo dai rifiuti marini
La soluzione (temporanea) è che volontari e ONG continuino i progetti di pulizia dei fondali. E l’investimento in sviluppo e tecnologie è la strada per trasformare il problema in una risorsa. Negli Stati Uniti il programma Fishing for Energy converte la spazzatura marina in energia. Da dicembre 2013 la partnership Fishing for Energy ha pulito 41 porti in 9 stati americani raccogliendo quasi 1000 tonnellate di rifiuti. Il materiale raccolto viene prima portato nelle fabbriche Schnitzer Steel per recuperare i metalli e il restante materiale non riciclabile viene convertito in energia nelle centrali Covanta Energy.
Il NOAA (Dipartimento Nazionale per la gestione degli oceani e dell’ambiente degli Stati Uniti) stima che una tonnellata di reti fantasma può produrre energia ad un’abitazione per 25 giorni. Un altro interessante progetto americano è Healthy Seas, che converte i rifiuti marini in oggetti di consumo come abbigliamento sportivo, calzini e tappeti.
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La protezione dei mari è una nostra responsabilità
L’ostacolo maggiore è che succede sotto il livello del mare e nessuno lo vede – è un problema invisibile, dice Ranooji. Siamo fortunati ad avere delle squadre di sub che hanno a cuore la biodiversità marina e la salvaguardia dei mari, conclude. Il cambiamento climatico è un segno e l’inquinamento oceanico è evidente. La Terra è malata e solo noi possiamo salvarla.
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